La società odierna, in cui le catastrofi naturali e quelle causate dall’uomo, così come le crisi politiche e sociali, sono il pane quotidiano, la speranza è solo un’illusione oppure in qualche modo esiste la capacità e la possibilità di agire, e quindi cambiare, qualcosa? La rinascita è solo una debole speranza? Si può ritornare ad esistere, rigenerarsi e rinascere, eliminando i fallimenti passati e rimediando ai propri errori?
Ci si trova davanti a paradossi concettuali antichi, come la Nave di Teseo o la fenice, che attraversano le opposizioni tra sé e l’altro, variazione e ripetizione, continuità e rottura. In un certo senso, si potrebbe dire che la rinascita abbraccia la morte, piuttosto che evitarla. La stessa fenice, creatura archetipica della rinascita, sceglie una morte tempestiva, immolandosi nelle fiamme, distruggendosi nell’atto stesso di risorgere.
Per riflettere su questi quesiti è stata pensata la mostra “Il Sol dell’Avvenir”, il primo capitolo di un programma biennale, ideato e sviluppato da non lineare – iniziativa curatoriale indipendente per la Fondazione Made in Cloister, che, attraverso una serie di pratiche artistiche e iniziative di ricerca, avvia una riflessione sull’idea della rinascita, sollecitata proprio da questa situazione di incertezza e crisi ambientale, politica, sociale ed economica.
Il titolo della mostra è estratto da una celebre canzone partigiana italiana, in cui il sole evocava una utopistica promessa di liberazione, l’illusione di un futuro migliore. Quando questa speranza è venuta meno ed è stata disattesa, si è trasformata in qualcosa di fragile e informe. Quindi il sole, da simbolo di speranza, cambia veste e diviene una forza ambivalente, generatrice di vita ma anche distruttiva (motore di incendi incontrollabili, siccità e devastazione ambientale); emerge la violenza insita nella sua natura.
“Il Sol dell’Avvenir” diventa emblema del precario equilibrio tra creazione e distruzione, tra speranza e catastrofe. La mostra riunisce artisti internazionali, i cui lavori attraversano questo delicato equilibrio, esplorando le diverse possibilità di rinascita tramite le trasformazioni materiali, le metamorfosi identitarie e le riorganizzazioni spaziali.
Essi raccontano le possibilità di rigenerazione in un mondo post-utopico e investigano come la materia, l’identità e lo spazio possano rinascere – sia attraverso la trasmutazione alchemica, la paternità para-fittizia sia attraverso la riattivazione di storie dimenticate.
Negli spazi del Chiostro di Santa Caterina a Formiello le opere, alcune prodotte per l’esposizione e altre appartenenti a collezioni già esistenti, si mimetizzano; per certi versi potresti quasi non accorgerti di loro, come se fossero sempre state lì e quello fosse il loro posto perfetto.
Carmela De Falco, artista napoletana, presenta tre nuovi lavori, realizzati per l’occasione. “Riflettendo, riflettendo, la voce” unisce due opere: un’installazione composta di segni sottili che si muovono sulle pareti del Chiostro, come fossero uno spartito. Infatti, il riferimento dell’artista è costituito dai disegni trovati nelle grotte di Lascaux in Francia, alcuni dei quali sono stati interpretati dagli studiosi come i primi vocalizzi umani, una sorta di musica, nonché un’arcaica forma di comunicazione tra esseri viventi.
Questi segni attivano la seconda opera: una performance che trasforma il Chiostro in un corpo risonante, grazie alle voci dei performer che ricordano il passato dello spazio abitato da monaci. Camminare e leggere. Ed è questo che fanno gli artisti: leggono partiture passeggiando nello spazio interno della fondazione, imitandosi nelle vocalizzazioni. Come in un gioco di specchi, le voci si inseguono, si sovrappongono e si distorcono, rendendo difficile comprendere da dove provenga la melodia.
Connessa con l’ascolto è anche “Trasmissione”, la terza opera della De Falco. Un piccolissimo oggetto in ottone, un gioiello, che riprende la forma anatomica della coclea, una cavità a forma di spirale nell’orecchio interno, il componente centrale dell’udito che trasforma gli stimoli esterni in vibrazioni. Questa parte, così come l’udito, è la prima a formarsi nel feto, il quale può fin da subito ascoltare la voce della madre e di chi è vicino, creando un legame profondo.
Il rito dell’ascolto attento e della risposta rimanda allo stadio dello specchio di Jacques Lacan, il momento in cui il neonato diventa parte del corpo sociale, imitando e percependo i movimenti del corpo più vicino, cioè della madre. La piccola chiocciola è poggiata su una coperta di lana. La lana, un tempo prodotta nel lanificio del Chiostro per la divisa dei soldati, appare come un oggetto e un mezzo di cura, abbracciando e riscaldando il fragile organo a cui si deve la capacità di comunicare degli uomini.
“Senza Titolo” è l’opera Danh Vo, artista vietnamita che riflette sull’identità. Una figura spagnola di Cristo del XVI secolo, acquisita all’asta e rifusa in bronzo, a cui sono state installate le mani del padre dell’artista, Phung Vo, trasformate ampolle di vetro al cui interno cresce il Nasturzio (Tropaeolum Majus).
Le mani si tendono in un gesto di protezione o elevazione, richiamando l’eterno gesto di cura della Pietà, mentre le piante vive affermano la persistente spinta della natura verso il rinnovamento. Nel corso dei mesi la pianta crescerà e si evolverà, modificando l’opera, la quale potrebbe essere completamente avvolta dalla natura, la quale, come sempre, prenderà il sopravvento sulle cose e sull’uomo.
Quando in passato c’erano guerre, chi aveva bisogno di armi fondeva le campane. Hiwa K, artista curdo-iracheno, nel “Il progetto della campana” inverte lo storico ciclo di produzione facendo vivere ai residui di guerra la propria resurrezione.
Lavorando con il mastro ferraio curdo Najad, che ha costruito un impero dai rifiuti dei campi di battaglia, i detriti del conflitto – mine, bombe, proiettili e parti di carri armati – vengono rifusi in una campana per una chiesa italiana. Ma questa metamorfosi rimane volutamente incompiuta. Troppo grande per la nicchia prevista nella chiesa sconsacrata di San Matteo, la campana giace silenziosa a terra, senza invitare alla preghiera, né avverte del pericolo: un monumento all’ambigua promessa della trasfigurazione.
In mostra anche le opere di mountaincutters, Alexandra Sukhareva, Clément Cogitore, Anastasia Ryabova, Renato Leotta e Reena Spaulings.
Il programma biennale prevede, oltre due mostre l’anno e simposi, anche due residenze d’artista. La prima si è già svolta e ha visto la presenza della coreografa, ballerina e performer russa Olga Tsvetkova, la quale ha reimmaginato le strade del quartiere Porta Capuana di Napoli attraverso l’ostranejnije – una defamiliarizzazione che rivela l’essenza misteriosa della vita quotidiana.
Attraverso workshop di movimento ed esperienza con i residenti, ha creato una mappa emotiva, una specie di archivio affettivo della zona, contrassegnando gli spazi con ricordi personali, déjà vu e incontri casuali. Questa mappa è stata tradotta in una coreografia, trasformando il quartiere in un archivio performativo. Documentando dettagli trascurati, il progetto si chiede: cosa significa rinascita dal punto di vista dello spazio stesso?
Questa prima esposizione sarà aperta al pubblico fino al 31 maggio.
Adriana Talia