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Al  Museo Madre c’è ancora la retrospettiva dedicata a Kazuko Miyamoto

AttualitàAl  Museo Madre c'è ancora la retrospettiva dedicata a Kazuko Miyamoto

In questi giorni di agosto, in cui la città è affollata di turisti, numerose sono le mostre in corso a Napoli da poter visitare. Tra queste si trova quella dedicata all’artista Kazuko Miyamoto al museo Madre, la prima ricognizione storiografica dedicata all’artista da un’istituzione pubblica europea.

Retrospettiva che ha inaugurato la programmazione triennale curata della nuova Direttrice del museo, Eva Fabbris e sostenuta dalla Presidente della Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee Angela Tecce.

Il percorso espositivo si snoda tra il secondo e il terzo piano del Palazzo Donnaregina, ripercorrendo, con più di 100 opere e in modo non cronologico, le diverse fasi e i numerosi media attraverso cui si è sviluppata la sua pratica dagli anni Settanta ai primi anni Duemila.

Miyamoto, dai primi anni Settanta opera a cavallo tra due paesi e due culture: il Giappone, dove nasce e studia e gli Stati Uniti, dove vive e lavora.

Essa è riuscita a trovare un suo personale modo di connetterne le istanze più profonde, capace di contribuire e allo stesso tempo contravvenire al linguaggio modernista.

In questa mostra, le opere dell’artista giapponese dialogano con quelle dei maestri suoi coetanei, che hanno arricchito il museo Madre di installazioni site specific, proponendo nuove modalità di lettura.

Tra gli artisti della collezione permanente, la vicinanza più forte è quella con Sol LeWitt e l’opera 10,000 Lines (2005): l’amicizia tra LeWitt e Miyamoto nasce quando quest’ultima diviene sua assistente dal 1968 in avanti; in questo modo l’artista giapponese si è avvicinata al linguaggio minimalista, che fa subito proprio nell’idea di materializzare linee e grafemi in installazioni fatte di spago, vibrantemente optical e tattili fino a diventare, dalla fine degli anni Settanta, quasi organiche.

Ampio è lo spazio dedicato in mostra alle string constructions, la sua più celebre serie di sculture di spago, rigorose e suggestive composizioni bi e tridimensionali iniziate nei primi anni Settanta.

Attraverso un sistema di dense linee parallele fatte di un materiale estremamente leggero e modesto, queste opere si presentano come un effimero ma efficace punto di contatto tra architettura e corpo, sollecitando la percezione a cogliere vibrazioni e imprecisioni. In questi lavori il linguaggio minimalista viene declinato in una forma che negli anni si fa sempre più tattile e irregolare.

A partire da questa serie iniziale, la mostra racconta l’evoluzione della pratica e dei riferimenti a cui l’artista attinge nei decenni successivi: dai lavori grafici, ai disegni legati alle string constructions fino alle opere realizzate con direct print o fotocopia, che testimoniano l’attenzione alla dimensione effimera della scultura

L’evoluzione della sua pratica si nutre e corre in parallelo alla sua attività di promotrice di contesti attivisti e espositivi che a New York hanno esteso i confini della rappresentatività per artiste donne e non occidentali.

Dal 1974 al 1983 fa parte del gruppo di artiste e teoriche che organizza le attività di A.I.R. (Artist In Residence), primo spazio espositivo dedicato esclusivamente ad artiste donne.

Qui, oltre a tenere numerose mostre personali, nel 1980 cura con Ana Mendieta, “Dialectics of Isolation: An Exhibition of Third World Women Artists of the United States”.

Nel 1986 apre la Gallery Onetwentyeight, uno storico spazio artistico ancora attivo nel Lower East Side di Manhattan, un punto di incontro per quella che progressivamente è diventata una comunità aperta.

In quegli stessi anni dà vita a una serie di installazioni da esterno in cui, con rametti e corde, costruisce ponti volanti che connettono chiome di alberi; per le sculture di interni, il materiale più in questo periodo è la carta arrotolata, con la quale compone sculture dalle forme organiche e costumi per performance nello spazio urbano.

Gli anni Ottanta la vedono interagire performativamente e elaborare suggestioni che vengono dalla street-life di Downtonwn New York, dove l’artista vive e lavora fin dal suo arrivo negli Stati Uniti, incontrando e dialogando con artisti, poeti e musicisti: una scena vivace e impegnata, celebrata in mostra con documenti visivi.

Nelle performance, presentate al Madre attraverso video e fotografie d’archivio, si nota il sempre più consistente recupero, in particolare nell’ambito della danza, di una memoria della cultura tradizionale giapponese che Miyamoto mette a confronto con i precetti modernisti su cui ha costruito la propria identità artistica.

Questa ulteriore modalità di connettere i differenti elementi della sua cultura, si legge con sapiente e tesa grazia nei kimono realizzati negli anni Novanta e nelle successive installazioni e performance in cui ricorre il tema dell’ombrello.

Attitudine ricorrente nel suo operare è quella all’effimero, all’impermanente.

Allo stesso tempo, è consapevole che questa scelta della precarietà non implica alcuna rinuncia alla tenacia e alla forza con cui le sue opere incarnano e celebrano l’irregolarità a cui è sottoposta nel mondo ogni griglia, ogni struttura.

Completano il percorso alcune importanti installazioni degli anni Duemila.

«Partendo da un confronto con le figure presenti nella collezione permanente, come Rebecca Horn, Jannis Kounellis e Giulio Paolini, l’idea di esporre Kazuko Miyamoto al Madre significa ampliare le prospettive storiografiche e socio-politiche con cui il museo racconta l’arte dell’immediato passato, che è una delle radici da cui parlare del presente e col presente – spiega Eva Fabbris – Miyamoto è donna nata negli anni Quaranta che abbandona il natio Giappone per intraprendere una carriera artistica negli States, dove incontra i linguaggi Modernisti, li abbraccia e li trascende, mettendoli a confronto con la sua cultura originaria.

É un’attivista femminista, che cura le prime mostre dedicate ad artiste provenienti da paesi non-occidentali; approccia il fare artistico senza mai puntare alla produzione dell’oggetto duraturo e collezionabile, privilegiando il valore del gesto e il rapporto tra corpo e architettura».

La mostra sarà aperta al pubblico fino al 9 ottobre 2023 ed è in preparazione una monografia a cura di Luca Cerizza, Zasha Colah e Eva Fabbris, che sarà pubblicata nell’autunno 2023.

La mostra è interamente finanziata con fondi POC (Programma Operativo Complementare) 2022-2023.

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