ROMA – “Non ho un corpo prima e un corpo dopo. Ho sempre vissuto tutto questo con estrema naturalezza perché non ho un termine di confronto e non ho mai combattuto contro di lui. E’ la casa della mia persona”.
Sono parole dense, affidate alla profondità, nette e precise, eppure anche poetiche quelle con cui Emma Tognin, 22 anni, nata con la SMA di tipo II, descrive se stessa e la sua vita.
Non ne risparmia le criticità, gli ostacoli, la necessaria assistenza medica, ma nemmeno le gioie, l’orgoglio, come quello della sua recente laurea in filosofia e il prossimo corso di magistrale che ha scelto di fare all’università di Bologna, in semiotica.
Testimonial, influencer, chissà quale definizione è la migliore, per questa giovanissima che del rispetto e della dignità di avere una vita come tutti sostenendo il “modello sociale della disabilità”, come lo definisce, ha fatto il suo impegno anche di attivista. “Siamo di fronte a un mondo molto complesso”, i giovani, che animano le pagine nere del suicidio, del bullismo, della violenza, sono le prime vittime perché “non hanno fiducia nel futuro, sono delusi”, come Emma risponde alla Dire.
Lei fiducia ce l’ha, anche quando crescendo e diventando consapevole della sua condizione nelle interazioni con gli altri arrivano anche le amarezze, come adesso l’impresa di: “trovare una casa, non ne trovo nessuna, a Bologna” che sia adatta a lei.
“Rispetto agli altri bambini sapevo di avere una vita diversa- ricorda Emma- ma vivevo tutto con una certa tranquillità, frutto anche del fatto che sono stata assistita molto bene da un punto di vista medico”.
Emma infatti è stata seguita ed è ancora oggi un riferimento per lei dall’hospice di cure palliative pediatriche di Padova della Fondazione La miglior vita possibile. Ha avuto tutti quei trattamenti e tecniche che servono per affrontare al meglio le crisi e il dolore che malattie genetiche come quella di Emma possono dare, legate quindi alla qualità della vita: un’assistenza che ha aiutato anche i suoi genitori.
“Il fatto che abbiano una reperibilità h24 ha aiutato me e i miei in molte fasi di emergenza; il fatto che sia uno spazio estremamente accogliente per le famiglie, le camere sembrano una piccola casetta e hanno il letto anche per il genitore; il fatto che fossero un punto di riferimento anche per esempio per la mia pediatra di famiglia e infine il fatto che mi abbiano aiutata nella gestione del dolore post operatorio”, tutto questo è un ricordo importante che ha segnato positivamente l’infanzia di Emma, qualcosa che non deve far pensare appunto alle cure palliative come solo legate alla fase terminale della vita. Non è così.
“Mi hanno aiutato nella respirazione, sono ventilata. Sono stati utili in fasi di rischio come infezioni durate a lungo, sono stata molto seguita quando dopo un’operazione ho perso tanto peso, e sono stata seguita anche da una psicologa”, racconta Emma.
Crescendo arriva il momento “del confronto e dell’interazione”, spiega Emma, “e la non preparazione del mondo. Sono una sostenitrice del modello sociale della disabilità: non è una caratteristica manchevole, ma è resa negativa dopo le interazioni che si hanno con il mondo”.
Qui nascono le prime ferite. Lo svantaggio “nasce dal dover lottare costantemente, quando il mondo ti rema contro: ognuno guarda il mondo con le caratteristiche che ha” e del resto anche un corpo senza disabilità va incontro all’invecchiamento, a una malattia, a un incidente”.
Bisogna pensare a questo modo “inclusivo” di guardare alle persone. Quando si è sentita sconfortata, o quando ha avuto una speranza o provato una forte gioia. I momenti, come per tutti, sono stati tanti.
“Momenti negativi sono stati legati al crescere e alla consapevolezza, mi sono resa conto, anche con l’attivismo, di quanto alcune forme corporee non siano ancora comprese o vengano trattate in modo superficiale, anche il corpo abile è momentaneo- risponde Emma- mentre il momento più bello è vedere quanto ci stiamo aprendo. Penso al primo disability pride a Padova”.
La società non è ferma, Emma parla di inclusione e di un orizzonte che si fa strada, a partire da testimonianze come la sua, i suoi studi, il suo impegno per l’evoluzione di tutti, per “abbracciare la diversità degli altri”.
Lei fiducia ce l’ha, anche quando crescendo e diventando consapevole della sua condizione nelle interazioni con gli altri arrivano anche le amarezze, come adesso l’impresa di: “trovare una casa, non ne trovo nessuna, a Bologna” che sia adatta a lei. “Rispetto agli altri bambini sapevo di avere una vita diversa- ricorda Emma- ma vivevo tutto con una certa tranquillità, frutto anche del fatto che sono stata assistita molto bene da un punto di vista medico”.
Emma infatti è stata seguita ed è ancora oggi un riferimento per lei dall’hospice di cure palliative pediatriche di Padova della Fondazione La miglior vita possibile.
Ha avuto tutti quei trattamenti e tecniche che servono per affrontare al meglio le crisi e il dolore che malattie genetiche come quella di Emma possono dare, legate quindi alla qualità della vita: un’assistenza che ha aiutato anche i suoi genitori.
“Il fatto che abbiano una reperibilità h24 ha aiutato me e i miei in molte fasi di emergenza; il fatto che sia uno spazio estremamente accogliente per le famiglie, le camere sembrano una piccola casetta e hanno il letto anche per il genitore; il fatto che fossero un punto di riferimento anche per esempio per la mia pediatra di famiglia e infine il fatto che mi abbiano aiutata nella gestione del dolore post operatorio”, tutto questo è un ricordo importante che ha segnato positivamente l’infanzia di Emma, qualcosa che non deve far pensare appunto alle cure palliative come solo legate alla fase terminale della vita. Non è così.
“Mi hanno aiutato nella respirazione, sono ventilata. Sono stati utili in fasi di rischio come infezioni durate a lungo, sono stata molto seguita quando dopo un’operazione ho perso tanto peso, e sono stata seguita anche da una psicologa”, racconta Emma.
Crescendo arriva il momento “del confronto e dell’interazione”, spiega Emma, “e la non preparazione del mondo. Sono una sostenitrice del modello sociale della disabilità: non è una caratteristica manchevole, ma è resa negativa dopo le interazioni che si hanno con il mondo”.
Qui nascono le prime ferite. Lo svantaggio “nasce dal dover lottare costantemente, quando il mondo ti rema contro: ognuno guarda il mondo con le caratteristiche che ha” e del resto anche un corpo senza disabilità va incontro all’invecchiamento, a una malattia, a un incidente”.
Bisogna pensare a questo modo “inclusivo” di guardare alle persone. Quando si è sentita sconfortata, o quando ha avuto una speranza o provato una forte gioia. I momenti, come per tutti, sono stati tanti.
“Momenti negativi sono stati legati al crescere e alla consapevolezza, mi sono resa conto, anche con l’attivismo, di quanto alcune forme corporee non siano ancora comprese o vengano trattate in modo superficiale, anche il corpo abile è momentaneo- risponde Emma- mentre il momento più bello è vedere quanto ci stiamo aprendo. Penso al primo disability pride a Padova”.
La società non è ferma, Emma parla di inclusione e di un orizzonte che si fa strada, a partire da testimonianze come la sua, i suoi studi, il suo impegno per l’evoluzione di tutti, per “abbracciare la diversità degli altri”.Le notizie del sito Dire sono utilizzabili e riproducibili, a condizione di citare espressamente la fonte Agenzia DIRE e l’indirizzo https://www.dire.it