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Allarme precarietà: 7 contratti su 10 sono a tempo, il 10% di chi lavora è a rischio povertà

PoliticaAllarme precarietà: 7 contratti su 10 sono a tempo, il 10% di chi lavora è a rischio povertà

ROMA – Terminata l’emergenza Covid-19 il mercato del lavoro appare ancora “intrappolato nella precarietà“: dei nuovi contratti attivati nel 2021 sette su dieci sono a tempo determinato, il part time involontario coinvolge l’11,3% dei lavoratori (contro una media OCSE del 3,2%), solo il 35-40% dei lavoratori atipici passa nell’arco di tre anni ad impieghi stabili, i lavoratori poveri rappresentano ormai il 10,8% del totale. Il nostro poi è l’unico Paese dell’area OCSE nel quale, dal 1990 al 2020, il salario medio annuale è diminuito (-2,9%), mentre in Germania è cresciuto del 33,7% e in Francia del 31,1% e dove le politiche in tema di sostenibilità sono state adottate appena dall’8,6% delle imprese, di queste la gran parte solo per il miglioramento nella gestione dei rifiuti, dove invece resta una chimera la creazione di filiere ecosostenibili (appena 1,2%) e per la produzione/consumo di energie da fonti rinnovabili (3,1%).

IL RAPPORTO INAPP: BASSI SALARI E BASSA PRODUTTIVITÀ

È quanto emerge dal “Rapporto Inapp 2022 – Lavoro e formazione, l’Italia di fronte alle sfide del futuroâ€� presentato alla Camera dei Deputati da Sebastiano Fadda, presidente dell’INAPP (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche pubbliche), con la partecipazione del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Marina Calderone. Il presidente dell’Istituto sottolinea: “Malgrado alcuni segnali confortanti -alcune debolezze del nostro sistema produttivo sembrano essersi cronicizzate, con il lavoro che appare intrappolato tra bassi salari e scarsa produttività. Per questo occorre pensare ad una ‘nuova stagione’ delle politiche del lavoro, che punti a migliorare la qualità dei posti di lavoro, soprattutto per i neoassunti e per i lavoratori a basso reddito, per le posizioni lavorative precarie e con poche possibilità di carriera, dove le donne e i giovani sono ancora maggiormente penalizzati. Le politiche del lavoro devono integrarsi con le politiche industriali e con le politiche di sviluppo, in una strategia unitaria orientata al rafforzamento della struttura produttiva, alla crescita del capitale umano e dell’innovazione tecnologica, al rafforzamento della coesione e della sicurezza sociale. Una strategia che deve essere disegnata ed attuata a tutti i livelli territoriali con un coordinamento capace di rispondere alle sfide del profondo cambiamento strutturale in atto”.

DOPO IL COVID PRECARIETÀ STRUTTURALE

Fadda aggiunge: “Il tema del crescente aumento dei contratti non standard rappresenta una costante del modello di sviluppo occupazionale italiano, che ha attraversato la prima crisi 2007-2008, sino a diventare requisito ‘strutturale’ della ripresa post Covid”. Fadda aggiunge che la “condizione di stagnazione dei salari è resa più preoccupante dalla ripresa dell’inflazione per cui si torna a porre il problema dei meccanismi idonei a contrastare la riduzione del potere d’acquisto di tutti i redditi fissi”.

NON APPLICATI I CONTRATTI COLLETTIVI: -20% NEL 2018

Il presidente Inapp spiega che “le cause di una dinamica salariale così contenuta sono diverse, una di queste è il meccanismo di negoziazione dei salari. Resta bassa la quota di imprese che dichiarano di applicare entrambi i livelli di contrattazione (4%); Inoltre, in sette anni si è ridotto il numero di aziende che dichiarano di applicare un CCNL (-10%), mentre si è più che duplicata la quota di imprese che dichiarano di non applicare alcun contratto (dal 9% nel 2011 al 20% nel 2018)”.

I CAPITOLI DEL RAPPORTO: LENTA CRESCITA DELL’OCCUPAZIONE

In Italia il tasso di occupazione, sceso dal 58,8 al 56,8% all’inizio della pandemia, ha ripreso a crescere solo nel 2021 e ha impiegato 18 mesi per tornare ai livelli pre-crisi. Nei Paesi OCSE la risalita era già consistente nel secondo trimestre 2020 e si è completata in 15 mesi. Nel 2021 sono stati 11.284.591 le nuove assunzioni, con prevalenza della componente maschile: 54% contro il 46% per le donne.

LA TRAPPOLA DELLA PRECARIETÀ

Nel 2021 il 68,9% dei nuovi contratti sono a tempo determinato (il 14,8% a tempo indeterminato). Nell’insieme il lavoro atipico (ovvero tutte quelle forme di contratto diverse dal contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato full time) rappresenta l’83% delle nuove assunzioni con un aumento del 34% negli ultimi 12 anni. Il rapporto rivela il crescente aumento dei contratti non standard che dopo la prima crisi 2007-2008 è diventato ‘strutturale’ dopo la ripresa post-covid. A dimostrazione di ciò l’analisi comparata longitudinale per i periodi 2008-2010, 2016-2018 e 2018-2021 di chi svolgeva un impiego precario. In tutti questi periodi la ‘flessibilità buona’ ha portato a un’occupazione stabile tra il 35 e il 40%. Dei rimanenti, sempre a distanza di tre anni, una quota ha continuato a svolgere un lavoro precario (tra il 30 e il 43% a seconda del triennio), un’altra ha perso l’impiego ed è in cerca di lavoro (16-18%), un’altra ancora è uscita dalla forza lavoro dichiarandosi inattiva (17% nel 2021, nel 2010 era il 3%).

LA CHIMERA DEL FULL TIME

Nel 2021 il part time involontario (la quota di lavoratori che svolgono un lavoro a tempo parziale non per scelta) rappresenta l’11,3% del totale dei lavoratori contro il solo 3,2% nell’area OCSE. Allo stesso tempo la tendenza alla riduzione dell’orario di lavoro sembra non arrestarsi e il prodotto per singola ora è bloccato dal 2000 rispetto a tutti i Paesi, non solo membri dell’UE.

IL LAVORO POVERO

Ci sono poi quanti, pur lavorando (dipendente o autonomo) sono in una famiglia a rischio povertà, cioè con un reddito disponibile equivalente al di sotto della soglia di rischio povertà. Nell’ultimo decennio (2010-2020) il tasso di “lavoro povero� è stato pressoché costante con un valore medio pari a 11,3% e una distanza rispetto all’Unione europea superiore mediamente del 2,1%. L’8,7% dei lavoratori (subordinati e autonomi) percepisce una retribuzione annua lorda di meno di 10mila euro mentre solo il 26% dichiara redditi annui superiori a 30mila euro, valori molto continua a leggere sul sito di riferimento

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